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“Va bene fare sistema, ma per viaggiare serve la benzina”. Fabio Bancalà, fondatore di Equinvest, parla di soldi. I soldi necessari per sostenere le buone idee, le startup. E ritiene che in Italia si debba trovare un’alternativa ai venture capital tradizionale: “Sono loro ad avere sempre il coltello dalla parte del manico e in Italia, ma anche in Europa, è difficile trovare fondi in fase seed ed early stage. Abbiamo una decina di attori, molti dei quali però hanno già chiuso il periodo di investimento. Penso a Vertis: sono due anni che non investono”. Le idee ci sono ma mancano i capitali, insomma. Secondo Bancalà la soluzione può essere l’equity crowdfunding, ma non nella forma tradizionale che da poco più di un anno abbiamo iniziato a sperimentare nei nostri confini.

Il regolamento Consob

Facciamo un passo indietro: la possibilità per le startup di raccogliere in Internet contributi di piccoli risparmiatori e investitori professionali è stata introdotta nell’estate del 2013, quando la Consob ha approvato il regolamento che ne scandisce l’attività. Da allora sono nate 13 piattaforme e sono stati raccolti 1,3 milioni di euro. “Il taglio è medio alto, da 20mila euro in su fino ad arrivare a 180mila: non è crowd è l’attività di angel investor”, afferma Bancalà. E centra il punto su cui ci siamo soffermati più volte in questi mesi: la crow, la folla, non ha colto l’opportunità dell’equity che sta diventando sostanzialmente un canale di investimento alternativo a quello classico per i soliti noti.

I limiti dell’equity crowdfunding all’italiana

Il motivo principale citato dai protagonisti del settore è il limite dei 500 euro, sopra i quali è necessario recarsi in banca per dare il proprio contribuito. Secondo Bancalà però è anche una questione di fiducia nello strumento e di reale interesse da parte sia del privato cittadino sia del professionista o dell’imprenditore. “Non mette 1.000 o 2mila euro perché poi si trova con lo 0,3%. E cosa se ne fa?”, spiega.

La rivoluzione di Equinvest

La soluzione, concretizzatasi appunto in Equinvest, potrebbe essere la creazione di un fondo in cui far confluire gli investimenti. In questo modo il risparmiatore non è solo, si sente più tutelato e ha, con gli altri entrati nel fondo, la possibilità di sedersi virtualmente al tavolo del consiglio di amministrazione della startup scelta. Ne beneficia anche la giovane impresa, che non deve informare ogni singolo investitore di come procede l’attività e si può concentrare sulla sua attività senza spingere sulla exit per accontentare il venture capital tradizionale. Tecnicamente, quindi, attraverso Equinvest, nato su ispirazione dell’omonima esperienza portoghese, si sottoscrivono quote del fondo che poi procederà a investire quanto raccolto nella startup parte delle piattaforma e scelta dagli investitori. L’idea è di partire i primi di maggio con le prime 2 o 3 startup e un fondo già attivo. La sede di Equinvest è a Roma. Bancalà, consulente finanziario classe ’77, ha co-fondato il progetto con altre 4 persone: Carmine di Blasi, Elisa Bancalà, Dario Lo Giudice e Federico Fallico. Nel curriculum dei 5 anche Xeelion, piattaforma statunitense di crowdfunding per le startup degli studenti americani. “A dire che le maggiori possibilità per l’equity arrivano dall’Europa è stata la World Bank”, spiega Bancalà. Equinvest prova a cavalcare l’onda.